- Link all’articolo scientifico: Panichella, N. (2018). Economic crisis and occupational integration of recent immigrants in Western Europe. International Sociology, 33(1), 64-85.
Li chiamano “3D jobs”, ossia mestieri sporchi (dirty), pericolosi (dangerous), faticosi (demanding). E sono quelli in cui gli immigrati vengono impiegati di più, almeno nell’Europa meridionale, anche quando chi arriva da un paese straniero è in possesso di un titolo di studio elevato.
Due Europe per il lavoro degli immigrati
In Italia, Spagna, Grecia e Portogallo l’inserimento occupazionale dei migranti si è caratterizzato per un particolare trade-off (Tab. 1) tra occupazione e qualità del lavoro.

Se da un lato i lavoratori stranieri hanno tassi di occupazione simili a quelli degli autoctoni, dall’altro sono fortemente segregati nei piani più bassi della struttura occupazionale, vale a dire nelle occupazioni più instabili e dequalificate. Questo vale sia per gli uomini che per le donne, le quali sono spesso confinate nelle mansioni legate all’assistenza domestica e alla cura degli anziani, svolgendo un ruolo prezioso per i livelli di welfare nazionali. La letteratura parla, in proposito, di modello Sud europeo di inserimento.
Nell’Europa del Centro-nord, invece, gli immigrati subiscono una doppia penalizzazione sia nelle opportunità di occupazione sia nella qualità dell’occupazione trovata. Anche in questi paesi gli immigrati hanno accesso a posizioni meno qualificate rispetto agli autoctoni, sebbene in misura meno grave che nei paesi del Sud Europa, ma a differenza di quanto avviene nel Sud Europa sono penalizzati anche nell’accesso all’occupazione.
Le peculiarità del modello sud-europeo di inserimento lavorativo sono riconducibili a una forte domanda di lavoro flessibile, a bassa qualifica e a basso salario sempre meno soddisfatta dalla forza lavoro locale, più istruita e poco propensa a spostarsi geograficamente.
Per questo motivo gli immigrati si sono inseriti prevalentemente nel cosiddetto segmento secondario del mercato del lavoro, dove le rigidità formali lasciano ampio spazio a una flessibilità di fatto (e dove i contenuti poco qualificati delle attività lavorative riducono le barriere all’accesso e permettono un certo grado di circolarità tra la disoccupazione e l’occupazione).
Ti cerco, ma non sei il benvenuto
Nei paesi del meridione d’Europa, e in Italia in particolare, si ripropone la formula wanted but not welcome ben conosciuta anche nel resto dei paesi europei: gli immigrati, sempre più funzionali al sistema economico, sono bersaglio di una forte ostilità di carattere identitario da parte della popolazione autoctona.
In Italia, poi, bisogna distinguere tra le regioni del Centro-nord e quelle del Mezzogiorno. Le regioni settentrionali hanno performance socio-economiche migliori di quelle meridionali: il tasso di occupazione è di gran lunga superiore, specialmente tra le donne; i mestieri dequalificati sono meno diffusi e c’è più possibilità di non rimanere intrappolati nei piani più bassi della struttura occupazionale. È chiaro che queste differenze hanno influenzato non solo la presenza della popolazione immigrata nelle due aree, ma anche il loro inserimento nei rispettivi mercati del lavoro.
La crisi colpisce soprattutto gli uomini
La crisi economica ha in parte mutato gli equilibri descritti. Nel mercato del lavoro italiano non è diminuita nel complesso la presenza degli immigrati.
A diminuire è stata soprattutto la probabilità di trovare occupazione, in particolare per gli uomini. La recessione ha infatti avuto effetti differenziati per genere. La figura 1 riporta gli andamenti, per gli anni 2005-2012, della penalizzazione etnica dei migranti uomini. Si tratta di differenze nella probabilità di essere occupati (linea con pallini neri pieni) e in quella di avere un lavoro di qualità medio-alta (linea con rombi vuoti) tra immigrati e nativi. I valori negativi indicano una penalizzazione per gli immigrati mentre i valori positivi indicano un vantaggio.
In Italia è aumentato il rischio di disoccupazione degli immigrati maschi. Un aumento tutto sommato contenuto che ha riguardato in particolare gli stranieri che risiedono nel Centro-nord, spesso precedentemente occupati in piccole e micro-imprese che operano in settori molto sensibili ai cicli economici, come l’edilizia e le attività manifatturiere.
Dinamiche simili hanno riguardato anche gli altri paesi del Sud Europa, seppure con alcune differenze. In Spagna e in Grecia il peggioramento è stato molto forte mentre in Portogallo, come in Italia, questo aumento è stato meno sensibile. La domanda di lavoro immigrato nel caso portoghese riguarda, come nel Sud Italia, prevalentemente l’agricoltura, settore toccato solo parzialmente dalla recessione.
Nei paesi dell’Europa continentale e settentrionale, invece, la crisi ha avuto un effetto più limitato sui percorsi occupazionali degli immigrati, lasciando in sostanza immutate le peculiarità dei loro modelli di inserimento lavorativo.

Non cala la domanda di lavoro di donne immigrate, ma per mansioni umili
Per le donne immigrate l’effetto della crisi è stato diverso. Gli andamenti riportati nella Figura 2 mostrano che, al contrario degli uomini, queste hanno infatti potuto contare su una domanda di lavoro costante, se non addirittura in crescita: quella del lavoro domestico e di cura. Si tratta però sempre più di una domanda di lavoro poco qualificato e molto spesso irregolare, che ha aumentato la loro segregazione nei livelli più bassi della struttura occupazionale. Questo peggioramento ha riguardato gran parte dei paesi Europei ma è stato particolarmente marcato in Italia e nel resto del Sud Europa.

In Italia, per esempio, nel 2005 le donne immigrate avevano uno svantaggio di circa 30 punti percentuali nelle possibilità di avere un lavoro di buona qualità, mentre nel 2012 questo svantaggio è cresciuto fino a sfiorare i 50 punti percentuali. Si tratta di una penalizzazione quantitativamente e sostantivamente rilevante.
Per avere un’idea più nitida della rilevanza di questa penalizzazione è utile fare un confronto con altre forme di disuguaglianza, per esempio quelle legate all’origine sociale. Nel 2012 lo svantaggio degli individui con licenza media rispetto ai laureati quanto a possibilità di evitare le occupazioni più precarie e dequalificate del mercato del lavoro era di 22 punti ovvero metà di quello che grava sulle donne immigrate nel mercato del lavoro italiano.
Un’Europa unica, ma in peggio?
In generale, la crisi economica ha confermato alcune caratteristiche del modello del sud Europa ma ne ha anche modificato altre avvicinando le condizioni del lavoro immigrato a quelle prevalenti nel centro e nord Europa. Se è vero che anche durante la recessione le donne immigrate hanno avuto possibilità occupazionali simili a quelle delle donne autoctone, è altrettanto vero che è aumentato notevolmente il rischio, per le prime, di rimanere “intrappolate” in lavori più dequalificati, anche quando possono vantare titoli di studio medio-alti.
Questo peggioramento è stato particolarmente forte in Italia, dove la penalizzazione delle donne immigrate è diventata la più alta tra quelle misurate nell’Europa occidentale. Tuttavia nel caso degli uomini, soprattutto in Grecia ed in Spagna, a peggiorare considerevolmente è stata anche la differenza per gli immigrati rispetto agli autoctoni nella probabilità di trovare un lavoro qualsiasi.
Insomma, dopo la crisi economica del 2008-2011 il modello del sud Europa di trade-off sembra lasciar posto, almeno per gli immigrati maschi, sempre più a quello a doppia penalizzazione che prima caratterizzava solo la zona centrale e settentrionale del vecchio continente: a una crescente penalizzazione etnica circa la qualità del lavoro – già molto consistente nel periodo pre-crisi – si è aggiunta una seconda penalizzazione “all’ingresso”, che pesa appunto sulle chances di aggiudicarsi uno stipendio.
È chiaro che questo cambiamento rende la stratificazione sociale dei paesi del Sud Europa più connotata etnicamente. In società caratterizzate da una bassa mobilità sociale, come proprio quelle del Sud Europa, questo cambiamento finirà per ripercuotersi inevitabilmente nel lungo periodo, influenzando anche i percorsi educativi e occupazionali delle seconde generazioni.
Ancora non abbiamo dati a proposito di come il Coronavirus potrebbe influire su questo scenario, ma è possibile che gli effetti della crisi economica e sociale iniziata ben prima della pandemia tendano a permanere o a crescere in intensità.