- Link al libro: Ferrera M., Mirò J., Ronchi S., Social Reformism 2.0 Work, Welfare and Progressive Politics in the 21st Century, Edward Elgar Publishing (2024).
1- Il libro si apre con un’immagine: il Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo. È il proletariato che dopo la rivoluzione industriale si batte perché gli sia riconosciuto potere politico. Unito, consapevole, coeso. Esiste ancora?
2- È stato sostituito dal precariato? Come si struttura/stratifica la società oggi?
3- Social Reformism 2.0 implica esser passati già da altre riforme. Qual è la seconda grande trasformazione a cui stiamo andando incontro?
4- Nel libro si parla di dilemma capitalismo e democrazia, due forze che possono generare insieme libertà e prosperità ma anche andare in tensione e indebolirsi a vicenda. Ci può spiegare meglio questo dilemma?
5- Una delle proposte di questo testo è che all’unione economica e monetaria europea andrebbe affiancata una unione sociale. Cosa intende di preciso e come si potrebbe concretizzare?
Ne parliamo con Maurizio Ferrera, docente di Scienza Politica alla Statale di Milano.
Autore – insieme ai colleghi Joan Miró e Stefano Ronchi – di un nuovo testo open access per Edward Elgar Publishing: “Social Reformism 2.0 Work, Welfare and Progressive Politics in the 21st Century”.
Podcast a cura di Giulia Riva.
Di seguito la trascrizione dell'episodio #8:
GR: Eccoci. Benvenuti e benvenute da Giulia Riva a un nuovo episodio di Le altre scienze, un podcast di NaspRead.eu con domande e risposte dal mondo delle scienze sociali e politiche. E benvenuto al professor Maurizio Ferrera, docente di scienza politica alla Statale di Milano e autore insieme a due colleghi – Joan Mirò e Stefano Ronchi – di un nuovo testo per Edward Elgar Publishing che si intitola Social Reformism 2.0. Work, welfare and progressive politics in the Twenty first Century. La versione online è disponibile open access, quindi fruibile gratuitamente da chiunque voglia saperne di più. Benvenuto professore, innanzitutto.
MF: Grazie. Grazie a voi per l'invito.
GR: Il vostro libro si apre con un'immaginem, il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. È il proletariato che dopo la rivoluzione industriale combatte perché gli sia riconosciuto il potere politico: quindi unito, consapevole e coeso. Esiste ancora?
MF: Mah, dunque, in realtà l'immagine che c'è sulla copertina è un rifacimento del quadro. Un'immagine che è stata fatta da un grafico e che risponde implicitamente alla sua domanda, perché raffigura un gruppo di persone che rappresentano il nuovo proletariato, chiamiamolo così per un momento, che è molto diverso dal proletariato dipinto circa un secolo fa. Nell'immagine rifatta che sta sulla copertina del nostro libro noi vediamo quelli che oggi sono i lavoratori precari, un mix molto eterogeneo di persone: alcune hanno la cravatta perché c'è anche precariato intellettuale, molti per la verità sono giovani con la bici perché rappresentano i lavoratori delle consegne a domicilio. Abbiamo cercato in questa immagine di raffigurare nella sua grande eterogeneità la massa di persone – soprattutto giovani, ma non solo – che sono diventate potremmo dire il Quinto Stato. Il Quarto Stato, cioè il vecchio proletariato, non è completamente scomparso. La nuova grande trasformazione che ha interessato le società europee nell'ultimo ventennio, nell'ultimo trentennio, è la transizione dall'industria ai servizi: a quella che si chiama la società della conoscenza. La risposta alla sua domanda è no, o meglio, solo in parte il vecchio proletariato esiste ancora. E nella misura in cui esiste, anche grazie alle garanzie del welfare, è diventato parte – seppure inferiore – della classe media.
GR: Siamo ancora di fronte a una società diciamo strutturata in modo piramidale, o può essere riassunta in modo diverso la società di oggi?
MF: Preferisco usare l'immagine del diamante, di rombo. In cui nel mezzo, in corrispondenza degli angoli orizzontali, c'è quella che io chiamo la massa media, i cosiddetti garantiti (compresa la fascia superiore di quel che resta del proletariato industriale). Poi c'è una parte superiore che si assottiglia sempre di più fino a diventare sottilissima perché arriva a comprendere i cosiddetti iper-ricchi, che sono nel mondo poche migliaia di persone, che però si trovano a una distanza siderale nel resto della società. In fondo il diamante si assottiglia di nuovo e nell'angolo inferiore troviamo i componenti del Quinto Stato: soprattutto i lavoratori precari, i giovani a basse qualifiche, che non hanno altre risorse. Che non hanno risorse che provengono dalla famiglia oppure dal welfare. Per esempio nei paesi scandinavi, dove esistono sistemi di welfare universalistici che proteggono le persone indipendentemente dalla loro posizione lavorativa, il precariato c'è nel senso di persone che hanno contratti diversi da quello standard a tempo indeterminato, però questi nuovi contratti non creano una situazione di estrema vulnerabilità o di bisogno perché il reddito può provenire dal sistema di welfare. È in paesi come l'Italia o gli altri paesi del Sud Europa – in parte anche quelli del centro – che il welfare non svolge la sua funzione e quindi o ci sono risorse provenienti dalla famiglia di origine oppure si cade in uno stato di grande vulnerabilità, e quindi la precarietà diventa una condizione sociologica potremmo dire.
GR: Ma esiste un ascensore sociale in una società a diamante?
MF: Dunque, l'ascensore sociale dipende molto dal sistema educativo e dai sistemi di reclutamento, che nel mercato del lavoro dovrebbero essere aperti alle persone che hanno credenziali e che hanno naturalmente talento. Il sistema educativo purtroppo è diventato sempre meno capace di servire la funzione di ascensore sociale perché ormai avere la laurea non è più un fattore di distinzione bisogna, avere qualcosa di più. Bisogna aver fatto uno stage, delle attività extra curriculari. In molti paesi bisogna avere le conoscenze giuste. Mentre negli anni Sessanta e Settanta, quando l'universalizzazione degli accessi all'istruzione ha consentito a una prima generazione di giovani – provenienti anche dai ceti sociali meno abbienti – di emanciparsi perché erano i primi a ottenere le credenziali necessarie per accedere a posizioni più retribuite, più reputate, con maggiore reputazione nella gerarchia sociale, adesso l'universalizzazione degli accessi ha completato il suo corso e la competizione si è spostata a ciò che succede negli anni immediatamente successivi al completamento del ciclo superiore di studi. Ed è lì che esistono create delle forti distorsioni e delle nuove diseguaglianze per cui vanno avanti coloro che si possono permettere uno stage (magari non retribuito) perché hanno la famiglia alle spalle o possono accedere a uno stage perché hanno le conoscenze giuste. Per cui la nuova frontiera per l'equalizzazione delle opportunità e la promozione della mobilità sociale è quella di universalizzare l'accesso a queste credenziali aggiuntive che ormai sono però diventate necessarie per entrare nel mercato del lavoro.
GR: Torniamo un attimo al vostro titolo: Social Reformism 2.0. Implica un po’ essere già passati da riforme: qual è la seconda grande trasformazione a cui stiamo andando incontro?
MF: Secondo Karl Polanyi, uno degli autori più brillanti nel descrivere la prima Grande trasformazione – quella che avvenne tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del ‘900 – le grandi trasformazioni hanno due diversi momenti. Un momento di distruzione creativa, potremmo dire parafrasando Schumpeter, e poi hanno un secondo movimento di risposta da parte della società ai nuovi rischi e bisogni che questa distruzione creatrice ha prodotto. Alla prima Grande trasformazione, dopo un periodo di sperimentazioni locali, fece seguito l’istituzione dei grandi schemi nazionali di welfare. Nel caso della Seconda trasformazione, quella che stiamo vivendo oggi (negli ultimi decenni) il secondo movimento, quello della risposta, ha dovuto affrontare un ostacolo che nella Prima grande trasformazione non c'era, cioè l'esistenza gli schemi vecchi che erano stati pensati e calibrati sulla struttura di bisogni della società industriale: pensiamo alle pensioni, pensiamo ai sussidi disoccupazione, eccetera. Il Riformismo 2.0, per necessità, deve sforzarsi come prima cosa di ricalibrare, di cambiare e di modificare gli assetti esistenti per dirottare parte della spesa della protezione verso le nuove categorie e verso i nuovi bisogni. Pensiamo per esempio nel caso italiano all'abolizione dell'Articolo 18, che ingessava il mercato del lavoro: chiudeva le porte a difesa dei cosiddetti garantiti, ma anche sbarrando l'accesso ai giovani che premevano per entrare nel mercato dove lavoro, i quali rimanevano relegati al di fuori di questa cittadella senza adeguate garanzie. Poiché le risorse di cui puoi disporre a bilancio pubblico sono finite, per adattare i sistemi di welfare ai nuovi rischi e bisogni, bisogna ridurre alcune delle strozzature: pensiamo all'ondata di riforme pensionistiche che ha investito tutti i paesi compreso il nostro. E questa operazione ha suscitato moltissime resistenze politiche, quindi è stato molto difficoltoso questo primo passo, che però è imprescindibile per poter dispiegare nuovi schemi a favore di quelle categorie – il Quinto Stato – che sono escluse, da recuperare.
GR: Nel libro si parla in particolare anche di un dilemma: il dilemma tra capitalismo e democrazia, quindi due forze che possono insieme generare libertà e prosperità ma anche andare in tensione (e quindi indebolirsi a vicenda). Possiamo approfondire insieme questo dilemma?
MF: Allora, il capitalismo è basato sull'individuo e sul mercato, quindi sulla libera competizione ispirata alla logica del profitto. Se lasciato a se stesso il capitalismo produce ricchezza, dispone degli incentivi affinché si producano beni nella maniera più efficiente. Ma produce anche una struttura sociale differenziata, cioè produce diseguaglianza: spesso povertà ed esclusione sociale. La democrazia – un termine scorciatoia, perché in realtà bisognerebbe chiamarla liberal democrazia (o meglio liberal democrazia basata sul welfare, questo è la democrazia oggi in Europa) – un sistema che garantisce non solo la partecipazione popolare alla scelta dei rappresentanti (quindi dei governi) ma anche un sistema che garantisce una serie di diritti in ambito civile, politico e sociale. Allora diciamo che contrasta programmaticamente gli effetti inegualitari del mercato capitalistico, perché istituisce dentro la società una specie di “spazio di eguaglianza” sorretto appunto dai diritti, che garantisce agli individui, quando si collocano entro questo spazio di eguaglianza, di poter rispondere ai propri bisogni e contare su risorse che sia in maniera indipendente dalla loro posizione di mercato. Per cui se c'è un sistema sanitario universalistico e se funziona bene la soddisfazione dei bisogni sanitari delle persone diventa indipendente dal reddito, il quale a sua volta è dipendente dalla posizione nel mercato capitalistico. Queste due istituzioni – il capitalismo e la democrazia liberale – si bilanciano a vicenda, producono sono alcuni vincoli reciproci ma anche delle opportunità reciproche. Però questo equilibrio è anche fragile: il capitalismo è basato sull'innovazione, anche lui sulla famosa “distruzione creatrice”, e a volte crea nuove forme di diseguaglianza che non sono previste né compensate da quello “spazio di eguaglianza” creato dalla democrazia liberale. D'altra parte le dinamiche che avvengono all'interno di quello spazio di eguaglianza (per esempio attraverso la mobilitazione sindacale) possono distorcere quegli incentivi da cui però dipende la efficienza del mercato capitalistico. Quindi è un equilibrio dinamico, va continuamente gestito e ricalibrato. Quando ci sono delle grandi trasformazioni il mantenimento dell'equilibrio fra democrazia e capitalismo può essere un'operazione molto difficile, ci possono essere delle fasi in cui si crea molta diseguaglianza – così come è stato in tutti i paesi occidentali, soprattutto negli Stati Uniti ma in parte anche in Europa, negli ultimi trent'anni – senza che la democrazia liberale riesca a inseguire questo cambiamento in termini di destrutturazione sociale della logica capitalistica. Noi ci troviamo nel mezzo di una Seconda grande trasformazione, quindi in un momento di sbilancio, di difficile bilanciamento. Soprattutto questo bilanciamento non può più essere adeguatamente ristabilito a livello dei singoli Stati nazionali. Con la globalizzazione, l'integrazione europea, l'interdipendenza il mercato capitalistico ha espanso di molto il proprio raggio d’azione, e quindi diventa difficile per i sistemi istituzionali dello Stato nazionale introdurre delle protezioni. Perché se si introducono protezioni le imprese possono decidere di delocalizzarsi, di andare a produrre altrove, e dunque si finisce per perdere occupazione.
GR: Una delle proposte del vostro testo è affiancare all'unione economica e monetaria europea un'unione sociale. Cioè, come si potrebbe concretizzare questa unione sociale?
MF: Un’unione sociale non dovrebbe essere un welfare state centralizzato e federale, dovrebbe essere una cornice di elementi che facilitano da un lato l'aggiustamento dei sistemi nazionali di welfare ai nuovi rischi – ai nuovi bisogni – e dall'altro forniscano una garanzia, un'assistenza straordinaria quando i paesi sono colpiti da rischi catastrofici (una pandemia che ha necessitato la creazione di un grosso fondo con 800 miliardi di euro per favorire la ripresa e la resilienza dell'economie europee). Ecco, un welfare che assicuri i welfare state nazionali e che ne faciliti (attraverso una serie di processi di coordinamento) l'aggiustamento ai nuovi cambiamenti e alla famosa Seconda trasformazione.
GR: Grazie al professor Maurizio Ferrera per averci dedicato del tempo. A chi ci ascolta, appuntamento al prossimo episodio.