- Link all’articolo scientifico: Bozzon R., Murgia A. (2021) Work-family conflict in Europe. A focus on the heterogeneity of self-employment, in ‘Community, Work & Family’ 24 (1), pp. 93-113.
Nel dibattito contemporaneo sulla trasformazione e marginalizzazione di professioni e mestieri, il lavoro autonomo viene sempre più spesso descritto come un’area ibrida, contraddistinta da un ampio spettro di condizioni. Accanto a forme ‘genuine’ di lavoro autonomo e imprenditoriale – lavoratori e lavoratrici con dipendenti o lavoro artigiano – troviamo forme vulnerabili e ‘pseudo’ autonome, ovvero status lavorativi solo formalmente indipendenti, nella sostanza caratterizzati da dipendenza economica o operativa equiparabili a quelle del lavoro subordinato. Come agiscono queste diverse forme di lavoro autonomo sulla percezione di un conflitto tra lavoro e famiglia? Abbiamo provato a rispondere a questa domanda di ricerca analizzando i dati della 6th European Working Conditions Survey, indagine condotta da Eurofound nel 2015 che contiene informazioni dettagliate sulla percezione del conflitto lavoro/famiglia, sulla qualità delle condizioni di lavoro, nonché un modulo ad hoc sul lavoro autonomo per un campione rappresentativo di lavoratori e lavoratrici residenti in Europa. Ecco i risultati.
I vantaggi della flessibilità (soprattutto per le donne)
Alcuni/e studiosi/e sostengono che le esigenze di conciliazione lavoro/famiglia rappresentino una delle principali motivazioni al lavoro autonomo. Secondo questa prospettiva, il lavoro autonomo è una soluzione lavorativa favorevole all’integrazione nel mercato del lavoro delle donne, sulle quali tuttora ricade il maggior carico di lavoro familiare. Autonomia e flessibilità rispetto a quando, dove e come svolgere l’attività lavorativa – almeno sulla carta – consentirebbero a chi svolge un lavoro autonomo di sottrarsi a quelle rigidità organizzative, proprie del lavoro subordinato, che facilitano l’esclusione dal lavoro chi ha pesanti carichi di cura. Negli ultimi 15 anni varie ricerche hanno mostrato che per chi occupa posizioni lavorative autonome altamente qualificate, soprattutto se donna, lavorare da casa, flessibilità e controllo dell’orario di lavoro, riducono la percezione di conflitto tra lavoro e famiglia.
Il peso dell’autonomia lavorativa sulla sfera privata
Altri/e studiosi/e sostengono invece che gli effetti positivi di autonomia e flessibilità sulla percezione di conflitto lavoro/famiglia sono sopravvalutati. Secondo questa prospettiva le condizioni del lavoro autonomo possono essere, al contrario, una fonte di attrito tra i diversi ambiti di vita, poiché favoriscono una maggiore permeabilità tra i ruoli lavorativi e familiari e una conseguente invasione del lavoro nella sfera privata. Inoltre, per chi lavora in modo indipendente, autonomia e flessibilità sono spesso accompagnate da lunghi orari di lavoro e da maggiori pressioni e carichi lavorativi sul piano materiale, cognitivo ed emotivo, alimentando dunque il conflitto percepito tra le responsabilità lavorative e quelle familiari.
Tassonomia del lavoro autonomo
Si fa presto a dire ‘lavoro autonomo’. Le possibili forme di lavoro autonomo si differenziano tra loro e rispetto al lavoro subordinato per diversi livelli di autonomia e discrezionalità su tempi e modi di lavoro. Le ipotesi avanzate nel dibattito scientifico riguardo gli effetti del lavoro autonomo sulle esperienze soggettive di conflitto lavoro/famiglia potrebbero pertanto valere o meno (e in misura differente) a seconda del tipo di lavoro autonomo considerato. L’autonomia lavorativa è classificata in letteratura in due categorie:
- lavoro autonomo con dipendenti (SE – self-employed);
- lavoro autonomo senza dipendenti (SSE – solo self-employed), che a sua volta si suddivide in due sottocategorie:
- lavoro autonomo genuino senza dipendenti (GSSE – genuine solo self-employed);
- falso lavoro autonomo simile a lavoro dipendente (DSSE – dependent solo self-employed).
Quest’ultima categoria comprende quei lavoratori e lavoratrici senza dipendenti che dipendono economicamente da un solo cliente (o da un cliente principale) e/o non hanno l’autorità di decidere come gestire la propria impresa e di assumere dipendenti.
Chi si guadagna da vivere in modo autonomo con dipendenti (SE) e chi ha un lavoro autonomo genuino senza dipendenti (GSSE) gode di più elevati margini di autonomia su tempi, spazi e modalità di lavoro rispetto ai lavoratori dipendenti. Lavoratori e lavoratrici autonomi/e ‘dipendenti’ (DSSE) si collocano invece in una posizione intermedia: hanno margini di autonomia e flessibilità nel lavoro più limitate delle posizioni imprenditoriali e genuinamente autonome, ma comunque superiori a quelle dei lavori dipendenti in senso stretto. In particolare hanno, rispetto al lavoro subordinato, maggiore capacità di controllo sul proprio orario di lavoro e maggiore possibilità di lavorare da casa, soprattutto nel caso delle donne.
Lavori quando vuoi ma lavori di più (e non smetti mai di preoccuparti)
Per tutti i tipi di lavoro autonomo considerati, tuttavia, a maggiori livelli di autonomia e discrezione corrispondono maggiori pressioni e carichi di lavoro. Tutte le donne e gli uomini così occupati lavorano infatti mediamente più ore settimanali rispetto a chi è dipendente, e la qualità del loro orario di lavoro è particolarmente bassa. Circa la metà di SE e il 40% di GSSE lavorano più di cinquanta ore a settimana. Chi invece svolge un mestiere autonomo simile agli incarichi di un dipendente (DSSE) ha un monte ore settimanale apparentemente simile a quello di lavoratori e lavoratrici dipendenti. Le loro attività lavorative, però, vengono svolte più frequentemente la notte e nei fine settimana, e sono più spesso soggette a cambiamenti repentini di orario. Le differenze nel bilanciamento di risorse e carichi lavorativi tra i diversi tipi di lavoro autonomo e dipendente si riflettono sui livelli di conflitto lavoro/famiglia percepiti, vale a dire sulla frequenza con cui donne e uomini continuano a preoccuparsi di questioni di lavoro anche quando non stanno lavorando o si accorgono che gli impegni lavorativi impediscono di dedicare all’ambito familiare il tempo e le energie desiderati.
La nostra ricerca rivela che SE e GSSE percepiscono maggiori livelli di conflitto tra lavoro e famiglia, mentre DSSE mostrano livelli di conflitto più bassi e prossimi a quelli delle posizioni lavorative dipendenti. Il divario nei livelli di conflitto percepiti è principalmente dovuto alle maggiori pressioni lavorative associate alle condizioni lavorative autonome genuine e imprenditoriali. I maggiori livelli di autonomia e flessibilità rispetto a quando, dove e come svolgere il proprio lavoro non sembrano dunque essere in grado di mitigare l’esperienza quotidiana di conflitto lavoro/famiglia dovuta a elevati livelli di pressioni e carichi di lavoro. In alcuni casi, al contrario, la alimentano, in particolare per chi lavora prevalentemente da casa. Questi risultati supportano quella parte della letteratura che vede nelle risorse lavorative tipiche del lavoro autonomo dei dispositivi che, rendendo i confini tra lavoro e vita privata sempre più sfumati, favoriscono la generazione di situazioni conflittuali.
Che differenza fa la ‘parità’ di genere
La letteratura scientifica concorda sul fatto che il livello di parità di genere diffuso nella società contribuisce a modulare le esperienze individuali di partecipazione al mercato del lavoro. La prevalenza di norme e contesti egalitari generalmente allevia le tensioni tra lavoro e famiglia, favorendo l’integrazione nel mercato del lavoro di uomini e donne in tutte le fasi del ciclo di vita. Ci siamo pertanto chieste se elevati livelli di parità di genere influenzino positivamente in modo omogeneo e trasversale a tutte le posizioni lavorative la percezione di conflitto lavoro/famiglia o se, al contrario, il loro effetto cambi a seconda della posizione lavorativa occupata.
Le nostre analisi corroborano questa seconda ipotesi. In particolare, per imprenditori o imprenditrici (SE) e per coloro che sono autonomi ‘genuini’ senza dipendenti (GSSE) le esperienze di conflitto variano sensibilmente quando si passa da un contesto di genere tradizionale a uno egualitario. Tali categorie di lavoratori e lavoratrici percepiscono i più alti livelli di conflitto tra professione e vita privata nei contesti di genere tradizionali e il loro svantaggio è significativamente più elevato rispetto al conflitto percepito da chi è DSSE o da coloro che lavorano con un contratto di tipo subordinato. Nei contesti di genere più egalitari il conflitto percepito da SE e GSSE è invece più basso e converge verso quello percepito in media da DSSE e lavoratori/trici dipendenti.
Flessibilità, inclusione, pressione, qualità del lavoro
In conclusione, il nostro studio suggerisce che le posizioni di lavoro autonomo in Europa non necessariamente si traducono in un migliore equilibrio tra vita professionale e privata. Occorre considerare i diversi tipi di lavoro autonomo nonché il livello di parità di genere di una data società.
Da un lato lo sviluppo di forme genuine di lavoro autonomo potrebbe produrre una crescita generale dei livelli di conflitto percepito tra lavoro e famiglia, per le pressioni e i carichi di lavoro ad esse connessi. Le forme genuine di imprenditorialità rappresentano un tassello fondamentale per lo sviluppo delle economie contemporanee ma la loro diffusione dovrebbe andare di pari passo con l’affermazione e il consolidamento di contesti di genere più egualitari, capaci di offrire migliori margini di gestione delle situazioni di conflitto.
Dall’altro lato, forme di ‘lavoro autonomo dipendente’ comportano carichi di lavoro relativamente più bassi e offrono elevati livelli di flessibilità e autonomia, caratteristiche desiderabili per chi è quotidianamente investito da compiti di cura nella sfera privata, e che attenuano la percezione del conflitto tra lavoro e famiglia. Si potrebbe pensare, quindi, che se a crescere fosse solo il lavoro autonomo cosiddetto ‘dipendente’ (DSSE) i livelli medi di conflitto percepito tra lavoro e famiglia migliorerebbero, in particolare per le donne. Peccato però che siano proprio loro a occupare posizioni lavorative deboli e vulnerabili, che derivano in gran parte dalla diffusione di pratiche di outsourcing e subappalto volte, in primo luogo, a ridurre il costo del lavoro. Occorre dunque ragionare non solo sull’aumento dell’occupazione femminile e sull’importanza di colmare le asimmetrie di genere nel mondo del lavoro, ma anche sulla qualità delle condizioni di lavoro e di protezione sociale offerte a lavoratori e lavoratrici.