Link all'articolo scientifico: Squazzoni F., Polhill, Gareth, Edmonds, Bruce, Ahrweiler, Petra, Antosz, Patrycja, Scholz, Geeske, Chappin, Émile, Borit, Melania, Verhagen, Harko, Giardini F. and Gilbert N. (2020). Computational Models That Matter During a Global Pandemic Outbreak: A Call to Action, Journal of Artificial Societies and Social Simulation 23 (2) 10.
La crisi pandemica in cui siamo precipitati da un paio di mesi sta mettendo a repentaglio le nostre vite. Funerali, cerimonie, rituali sociali e abitudini personali sono stati congelati. L’impressione di vivere in società vulnerabili viene alimentata da decisioni pubbliche e interventi politici che alternano numeri, trend, grafici – cose che suonano scientifiche – ad ambiguità, incertezze e contrordini che ci ricordano il cammino di un ubriaco.
Ogni crisi pandemica non è mai solo una crisi di salute pubblica: è anche un processo di reazione e adattamento dei sistemi sociali. Sottoposti a uno shock, gli organismi sociali innescano anticorpi, reazioni e risposte. L’accelerazione del tempo e l’urgenza delle risposte mettono in luce disfunzioni e distorsioni degli equilibri sociali preesistenti. Pensiamo alla fiducia nella politica, all’autorevolezza della scienza o al capitale ‘civico’ che sostiene il rispetto delle norme in periodi di crisi collettiva. Capiamo che le nostre società si poggiano su importanti infrastrutture sociali quando esse divengono determinanti per la produzione di anticorpi che ci aiutano a rispondere a eventi catastrofici non previsti, spesso neppure immaginabili.
Società interconnessa e lockdown anti-contagio
Mentre siamo interconnessi gli uni agli altri a livello biologico, economico e sociale in modo sempre più intricato, in risposta al Covid-19 i decisori politici hanno introdotto misure draconiane di lockdown e “distanziamento sociale” con un ampio corredo di esperti, dati e grafici che misurano popolazioni, curve e dinamiche aggregate. Per chiunque non sia un virologo, tuttavia, queste decisioni e questi numeri sembrano riflettere poco il contesto famigliare di vita delle persone e quello che la nostra esperienza sociale ci insegna da sempre: non siamo tutti uguali, i nostri nuclei famigliari sono profondamente differenti.
Siamo diversi per numeri e caratteristiche dei contatti sociali, non tutti siamo esposti al contagio allo stesso modo. Chi vive da solo in montagna presenta certamente un indice di minore pericolosità come vettore del virus rispetto a un infermiere di terapia intensiva in un ospedale cittadino. Insomma, al di là della coltre dei dati e delle curve, sappiamo bene di non essere quella popolazione omogenea e indifferenziata che sembra trasparire dai modelli epidemiologici utilizzati dai decisori politici per spiegarci la necessità delle loro decisioni.
Epidemiologi, virologi e consulenti del governo, nomi che ormai abbiamo imparato a conoscere sui media, parlano dell’importanza del comportamento di ciascuno di noi perché le misure anti-contagio siano efficaci. Si badi bene, l’importanza del comportamento non è evocata per discutere le conseguenze sociali delle norme a cui siamo sottoposti: alcuni fattori comportamentali e sociali sono importanti sia per motivare il tipo di intervento da adottare, sia per determinare la sua stessa efficacia. Se è così, e non v’è ragione di dubitarne, ci si aspetterebbe che tali fattori siano parte costitutiva dei modelli utilizzati per prevedere le curve di contagio e l’efficacia delle misure di intervento. Ma purtroppo così non è.
Epidemiologia senza sociologia: i limiti del modello Ferguson
In un recente articolo un team internazionale di ricercatori, fra i quali il sottoscritto, ha analizzato con attenzione i modelli di simulazione utilizzati a supporto delle misure di contenimento del contagio da Covid-19. Come ricostruito anche dal collega Gianluca Manzo, sociologo alla Sorbona, in un commento pubblicato su Le Monde il 14 aprile, le draconiane misure di contenimento del contagio adottate da vari Paesi sono state influenzate dalle previsioni di contagio formulate da un team di Neil Ferguson dell’Imperial College di Londra. Si ritiene che un’audizione di Ferguson, in cui vennero mostrate le previsioni del suo modello, sia alla base della famosa virata del governo britannico passato, da un giorno all’altro, dal propugnare le virtù terapeutiche dell’immunità di gregge a serie misure di lockdown simili a quelle adottate precedentemente nel nostro Paese.
Insomma, nello spazio di un mattino, un modello previsionale, il cui cuore teorico e analitico era stato sviluppato da Neil Ferguson vent’anni fa (e il cui codice computazionale/matematico è stato reso pubblico solo pochi giorni fa), è divenuto una decisione pubblica di intervento su vasta scala.
Mentre è bene che si abbiano modelli matematici e computazionali in grado di proporre previsioni della diffusione di epidemie a livello di popolazione, è bene notare che in tutte le varianti proposte e aggiornate dal team di Ferguson (con aggiunta di dati su vari Paesi e sofisticate calibrazioni di fattori geografici nella distruzione della popolazione), questi modelli contengono assunzioni legate alla diffusione del virus e all’efficacia delle misure di contenimento che ignorano vent’anni di scienza sociale su reti e comportamento sociale.
In questi modelli la popolazione è composta da ‘individui’ che hanno un dato numero di contatti sociali derivanti da famiglia, scuola, luoghi di lavoro e posizione geografica, come fossero un tot al chilo per ciascuno. Si assume che ognuno abbia una probabilità data di entrare in contatto con qualsiasi altro soggetto infettato, che ognuno di noi trasmetta il virus in media allo stesso numero di soggetti, che le misure di distanziamento sociale abbiano un effetto fisso di riduzione dei contatti simile per ciascuno di noi e che tutti siamo connessi a un numero simile di altri soggetti. Si badi bene che tali assunzioni siano implicate sia nella previsione della curva del contagio a livello di popolazione nel suo insieme, sia nel valutare l’efficacia delle misure di distanziamento sociale, ad esempio supponendo un taglio lineare dei contatti sociali derivanti da scuola, luoghi di lavoro e mobilità geografica.
“Uno non vale uno”: la specificità delle interconnessioni in sociologia
Vent’anni di analisi delle reti e comportamento sociale hanno dimostrato che la connettività sociale abbia caratteristiche strutturali ben precise. In primis, ognuno di noi non è connesso in media ad uno stesso numero di soggetti. Non ci sorprenderà sapere che ci sono soggetti che godono, per professione, prestigio o capacità, di un più ampio numero di contatti sociali rispetto a noi. È naturale pensare che alcuni soggetti possano essere maggiormente esposti al contagio a causa della loro posizione sociale, dal numero e dal tipo dei loro contatti sociali.
In secondo luogo, la formazione delle relazioni sociali – fattore determinate per la stima del contagio o dell’efficacia di misure di distanziamento sociale – non segue criteri causali, ma è vincolata da fattori che noi sociologi studiamo da decenni: l’omofilia (tendenza di soggetti simili per attitudini, gusti, interessi, a essere maggiormente in contatto fra di loro), la gerarchia e lo status professionale (tendenza, da parte di soggetti con professioni e posizione di status elevate, ad avere più ampie e diversificate reti di contatti sociali) e la transitività (la probabilità dei contatti sociali di un soggetto di essere a loro volta in contatto tra loro), per citare solo alcuni dei più noti meccanismi che sembrano caratterizzare le reti sociali nonché la loro formazione e struttura.
Mentre gli epidemiologi stimano un tasso medio di soggetti infettabili per ogni soggetto, con l’eccezione di super-spreader, cioè soggetti eccezionali che contaminano un numero significativamente più elevato di soggetti (la cui numerosità e posizione nessun modello può stimare), i sociologi sostengono che, anche a parità di potenziale capacità di contagio di un soggetto, il suo effettivo effetto dipenda dalla struttura dei suoi contatti e dalla sua posizione.
Un collasso dei sistemi tecnologici di controllo dei voli in un hub aeroportuale come Schipol ad Amsterdam potrebbe avere conseguenze ben più critiche rispetto a un evento simile in un aeroporto periferico. Allo stesso modo il contagio di un soggetto in posizione “hub” in una rete sociale potrebbe avere un effetto differente rispetto a quello di un soggetto in posizione periferica.
Certo, non dobbiamo nascondere il problema della penuria di dati sociali in grado di stimare in maniera accurata le reti sociali in un determinato contesto. Esistono tuttavia solide evidenze empiriche circa alcuni tipi di strutture sociali di contagio che si potrebbero testare. Sappiamo, ad esempio, che le assunzioni di omogeneità e causalità delle reti su cui si basano i modelli di Ferguson e colleghi non hanno alcuna evidenza empirica.
Nessuno di noi ha intenzione di mettere in discussione il fatto che misure di drastico lockdown e distanziamento sociale siano in grado di minimizzare la diffusione dell’epidemia. La storia delle pandemie ce lo insegna ben prima della matematica.
Tuttavia, se accoppiate a una rappresentazione più informata delle dinamiche sociali e delle strutture delle nostre società, le moderne capacità di modellizzazione al computer potrebbero almeno essere sfruttate per esplorare diverse misure in grado di calibrare interventi di contenimento più intelligenti, adattivi e mirati.
Interventi in grado, forse, di ridurre i costi sociali, psicologici, economici e di salute pubblica delle misure draconiane intraprese in queste settimane. Questi modelli sociologicamente informati si rivelerebbero utilissimi nella cosiddetta “fase 2” per tarare misure di rilassamento del lockdown ritagliate appositamente non solo per alcune professioni, ma anche per alcuni nuclei famigliari.
La perfezione non è cifra delle vicende umane. I modelli scientifici e le decisioni politiche non fanno eccezione. Tuttavia per quanto facile e immediato possa sembrare, non è saggio trasformare modelli a finalità previsionali – che inquadrano il livello macro di una popolazione – in strumenti a supporto di misure di politica pubblica, ignorando fattori sociali e comportamentali che sappiamo essere cruciali nel rendere più o meno efficaci quelle stesse misure.