Link agli articoli scientifici:
- Marco Giuliani (2019) “Economic vote and globalization before and during the Great Reion”. Journal of Elections, Public Opinion and Parties;
- Marco Giuliani (2019) “Benchmarking or spillovers. The Economic vote before and during the Great Recession”. Quaderni di scienza politica 26(3), 383-408;
- Marco Giuliani (2020) “Economy or austerity? Drivers of retrospective voting before and during the Great Recession”. International Political Science Review.
“Piove, governo ladro”, recita il detto. Quando le cose vanno male è quasi inevitabile dare la colpa a chi governa. E quale indicatore meglio dell’economia – meteorologia a parte – per decretare che le cose non girano nel verso giusto? Ecco l’essenza della teoria del voto economico.
Quando l’economia non cresce o c’è elevata disoccupazione, alla prima occasione elettorale i cittadini tendono a punire chi li governa. Si tratta di una comoda scorciatoia cognitiva per dare un giudizio sulle capacità di gestione della cosa pubblica dei governanti, nonché di un modo per incanalare la propria insoddisfazione politica quando si è chiamati alle urne.
Un voto sul benessere della collettività, poco influenzato dalle simpatie politiche
Il voto economico come scorciatoia cognitiva non considera solo (né prevalentemente) la propria situazione personale – cioè il benessere della propria famiglia, se si è occupati o meno – ma anche il più ampio contesto nazionale. In gergo si dice che ciò che spinge i comportamenti politici è una valutazione di tipo sociotropico, più che egotropico, dell’economia.
Il voto economico prescinde anche, almeno in parte, dalle preferenze politiche. Non che queste si annullino, ma a seconda dell’andamento dell’economia una quota importante di cittadini modifica le proprie scelte di voto al di là delle simpatie ideologiche, al punto da produrre un effetto sistematico rilevabile sull’intera popolazione. Le evidenze sull’importanza di questo modo di votare sono tante. Il tasso di crescita e l’indice di disoccupazione risultano sempre, rispettivamente, inversamente e direttamente proporzionali alla percentuale di voti persi alle urne dai partiti di governo.
La Grande Recessione come banco di prova
La Grande Recessione – iniziata tra il 2007 e il 2008 con la crisi dei mutui subprime e il crollo del mercato immobiliare statunitense – sembra l’occasione ideale per una verifica empirica della teoria: quando, se non in una crisi economica profonda e duratura, ci si può aspettare che l’economia condizioni i comportamenti di voto? I dati sulle performance economiche in un gran numero di democrazie e sui risultati elettorali dei rispettivi governanti supportano la teoria: i partiti al governo hanno perso in media, nel periodo considerato, mezzo punto percentuale di voti per ogni punto di riduzione della crescita o aumento della disoccupazione.
La Grande recessione genera però anche domande di ricerca diverse rispetto a quelle legate all’ordinaria congiuntura economica. Di conseguenza, le risposte sono meno scontate. Ci si può chiedere innanzitutto se esista una soglia di peggioramento dell’economia, quella che un paese raggiunge in genere solo durante gravi crisi globali, oltre la quale un ulteriore peggioramento così come un miglioramento non ha effetti sul voto. Se, per esempio, la quota dei disoccupati sale dal 20 al 22 per cento della popolazione attiva (o viceversa scende di quei due punti), fa ancora differenza per le sorti elettorali di chi governa?
Le evidenze empiriche da noi raccolte mostrano che – con riferimento al numero di disoccupati – a contare di più sono i valori assoluti e non gli andamenti di breve periodo. Nei tanti paesi con tassi di disoccupazione a doppia cifra, un miglioramento pre-elettorale di uno o due punti percentuali non si è mai tradotto in maggior supporto politico per il governo. Altri interrogativi fondamentali, riguardano il ruolo dell’integrazione economica (o politica) di ciascun paese con il resto della comunità internazionale e l’effetto delle politiche di austerità.
L’effetto della globalizzazione prima e dopo la Grande Recessione
Molte analisi precedenti alla Grande Recessione mostravano che i cittadini dei paesi più globalizzati scaricavano meno degli altri le tensioni economiche sui partiti al governo. Le ragioni ipotizzate erano diverse. Nei contesti globalizzati è ragionevole da parte dei cittadini aspettarsi che le condizioni dell’economia sfuggano alle responsabilità dei governi nazionali, e in tali contesti è comunque più difficile individuare le responsabilità effettive. Inoltre, più le economie sono integrate, più cresce la domanda di protezione contro i rischi che ne derivano, e più i programmi di maggioranza e opposizione si assomigliano. Gli elettori non trovano pertanto nell’opposizione un’alternativa di policy plausibile. Infine, le economie più integrate sono anche quelle che condividono con altre le medesime oscillazioni del ciclo economico. I loro cittadini potrebbero scontare più di altri le dinamiche globali, in un processo definito di benchmarking.
Questi argomenti, che forse valgono in tempi normali, sono legati a un’integrazione di tipo economico. Pensando all’Europa e alle misure anticrisi imposte da Fondo monetario internazionale e dall’Unione europea come condizioni per i prestiti internazionali, perché non ritenere che sia l’integrazione politica, più di quella economica, a condizionare le reazioni dei cittadini? I paesi più integrati sarebbero anche quelli più spogliati di sovranità decisionale e dunque con i cittadini – a parità di difficoltà economiche – più ostili nei confronti dei governanti che tale spoliazione consentono.

Una risposta a queste ipotesi viene dall’analisi di 168 elezioni in 38 democrazie economicamente avanzate. I grafici in Figura 1 riportano l’effetto marginale della disoccupazione sulla percentuale dei voti ai partiti di governo per livelli variabili di globalizzazione economica e politica.
Nella metà sinistra della figura – che mostra dati relativi a prima della Grande Recessione – si nota un effetto sistematico negativo (sotto la linea dello zero) della disoccupazione sui voti ai governanti solo per i paesi caratterizzati da bassa globalizzazione, in particolare se economica. Per entrambi i tipi di globalizzazione l’effetto dell’economia sulle sorti elettorali dei partiti di governo non è più statisticamente significativo per elevati livelli di globalizzazione (all’estremità di destra dei grafici, gli estremi degli intervalli di confidenza sono l’uno positivo e l’altro negativo).
I grafici nella metà destra della figura – relativi al periodo della Grande Recessione – raccontano una storia diversa. L’effetto moderatore della globalizzazione si annulla per quanto riguarda l’integrazione economica e si inverte di segno nel caso dell’integrazione politica. Mentre i paesi meno integrati – non molti a giudicare dall’istogramma sovrapposto al grafico – non mostrano alcun voto economico, cioè nessun effetto significativo di un aumento della disoccupazione sul consenso ai governanti, quest’ultimo cresce allo stringersi dei legami politici e istituzionali, come quelli che caratterizzano i paesi dell’Ue. Il caso greco rappresenta bene questa combinazione: nel 2012, con una disoccupazione al 24.5 per cento e con i vincoli al risanamento imposti dalla “Troika” (Fmi, Ue e Bce), la coalizione di unità nazionale formata da Pasok, Nuova Democrazia e Raggruppamento ortodosso vide ridursi il proprio consenso elettorale di 48 punti percentuali.
Il prezzo dell’austerità: voto economico e voto fiscale
Sebbene sembri di buon senso immaginare che i cittadini non siano favorevoli a politiche che comportano un aumento delle tasse o una riduzione dei servizi e che per questo motivo sanzionino elettoralmente i governanti responsabili di tali scelte, alcuni economisti hanno sostenuto che i cittadini sarebbero capaci di essere fiscalmente responsabili, almeno a parità di congiuntura economica. Che cosa succede però se le politiche di austerità sono adottate durante una crisi globale? Lo studio portato avanti alla Statale di Milano ha testato contemporaneamente l’impatto delle variabili economiche e di politica fiscale sul voto al governo prima e durante la crisi, controllando per altri fattori quali il voto alle precedenti elezioni, il differenziale di partecipazione elettorale, il carattere coalizionale del governo. Ne sono emersi i risultati in Tabella 1.

A fianco degli usuali tassi di crescita e di disoccupazione è stato inserito – come misura delle politiche di austerità – il cambiamento nel saldo primario di bilancio al netto del ciclo economico. Un suo aumento, quindi una riduzione del debito strutturale, corrisponde a una politica di maggiore austerità. Prima della recessione solo la disoccupazione attivava il voto economico, mentre le politiche fiscali del governo non avevano alcuna incidenza significativa. Durante la crisi non solo entrambe le variabili economiche – disoccupazione e crescita – ma anche le politiche di austerità hanno un impatto significativo sul voto. Più queste sono stringenti, portando ad una diminuzione dell’indebitamento, più si contrae infatti il sostegno elettorale ai partiti di governo.
Questa relazione non ha sempre la stessa forza. L’ineguaglianza economica, le condizionalità internazionali e la struttura di eventuali manovre di austerità giocano un ruolo importante.
Solo nelle società più eguali si manifesta quello che si può definire un “voto fiscale”, cioè una punizione di chi governa, attivato dalle politiche di austerità. Dove c’è diseguaglianza è più probabile che le manovre insistano, discriminando, su chi già è perdente (e quindi già contrario al governo) ignorando gli altri, che non essendone toccati restano del governo sostenitori. Solo quando “tutti” soffrono per le restrizioni imposte dall’austerità ci può essere un effetto sistematico sui comportamenti di voto. Ovviamente il voto fiscale è più intenso nei paesi in cui le manovre non sono state decise dai governi nazionali, ma in qualche misura imposte dall’esterno in cambio di prestiti internazionali. In ultimo, le manovre di austerità improntate al taglio delle spese sono elettoralmente meno problematiche di quelle caratterizzate da un aumento della tassazione.
Nuove crisi, nuove sfide
La Grande Recessione ha (purtroppo) rappresentato un interessante banco di prova per la conferma, l’affinamento e l’integrazione delle teorie del voto economico.
Le crisi sono per definizione periodi eccezionali: la Grande Recessione conferma la regola. Quel che ancora non sappiamo è che cosa resta, una volta recuperata la normalità, nel comportamento di voto dei cittadini. Ancor più difficile è capire se si possano trarre lezioni per altri tipi di crisi. La Brexit, o l’emergenza Coronavirus, con i loro effetti sull’economia globale, sono parte di un presente condiviso e drammatico. Ogni crisi è storia a sé, eppure (forse) esistono dinamiche comuni. Quesiti assai difficili e ancora senza risposta. Nel frattempo, accontentiamoci del fatto che non piove sempre. Di solito.