Con grande disappunto degli uomini d’azione, gli scienziati sociali (e non solo sociali) non forniscono quasi mai soluzioni pratiche e immediate. Tuttavia offrono teorie e metodi per comprendere e spiegare i fenomeni e, se concordiamo sul fatto che comprendere è condizione necessaria per risolvere, converremo anche sull’importanza dell’impresa conoscitiva delle scienze sociali. La quale ha però i suoi tempi, che sono quelli della ricerca scientifica.
Le conoscenze delle bioscienze servono ad avanzare ipotesi su quali proteine di virus o sequenze di Rna e Dna possano funzionare come vaccino contro il Covid-19. Ma queste ipotesi vanno sottoposte a test che, ormai lo sappiamo, richiedono molti mesi, quando non anni, per dare risposte sufficientemente certe. Lo sforzo congiunto di tutti i laboratori di ricerca nel mondo non è in grado di accelerare l’esito del processo. Questo – l’assenza di soluzioni prêt-a-porter – va intanto ricordato agli uomini d’azione che si e ci chiedono quali armi le scienze sociali abbiano da offrire alla lotta contro il Coronavirus.
Leggere la pandemia con gli occhiali delle scienze sociali
Quali ordini di conoscenze le scienze sociali possono mobilitare per generare ipotesi di ricerca intorno al Coronavirus, inteso come combinato o complesso di interazioni dell’epidemia virale con la dimensione sociale, quella politica e quella economica (con le quali il virus interagisce in modo così continuo e indissociabile)? Quali strumenti teorici, fondati sulla conoscenza di regolarità empiriche, ci permettono di analizzare la fase del lockdown?
Numerosissimi sarebbero i possibili punti d’accesso sociologici all’epidemia. La rottura – con le pratiche di distanziamento – dei rituali che definiscono l’ordine dell’interazione sociale, ad esempio. Così come i moral panics (o sentimenti di paura collettiva) coprodotti da media e istituzioni per rendere accettabile collettivamente sacrifici molto ingenti sul piano del rapporto costi/benefici individuali. O la struttura e la densità delle reti sociali come fattori predittivi della diffusione del contagio.
In questa sede propongo alcuni spunti di riflessione concentrandomi sulla dialettica, sulla continua tensione tra principi di unità e di divisione intorno a cui si riorganizza costantemente il mondo sociale. Questa sorta di nomos, o logica di funzionamento dell’ordine sociale, implica che ogni tema, evento o situazione possa essere appreso come un punto d’equilibrio sempre provvisorio tra dinamiche coesive e divisive.
Il momento della solidarietà collettiva
Applicata alla pandemia, questa chiave di lettura ci permette di rilevare un momento unitario sul piano delle rappresentazioni e delle emozioni condivise; una forza di integrazione sociale non moralistica (benché la performance rituale dei “balconi” ne sia un aspetto) ma oggettivamente legata al dispiegarsi di un evento catastrofico che, come mostra la sociologia dei disastri, sospende le divisioni abituali e genera solidarietà, riaffermando anche in società altamente differenziate quella che Emile Durkheim chiamava una coscienza collettiva.
Accanto agli effetti della cogenza biologica dell’epidemia, la sociologia politica suggerisce di guardare, come ha fatto Pierre Bourdieu, al potere dello Stato nell’imporre una definizione legittima e condivisa della realtà, specie nella percezione collettiva della gravità del rischio. Così il decreto “Italia zona rossa” produceva un’immediata legittimazione – ben oltre l’ovvio timore della sanzione – di pratiche di distanziazione (come rifiutare di incontrare amici o stare lontani dagli interlocutori) che sarebbero altrimenti risultate socialmente insostenibili, oltre a una drastica riconsiderazione retrospettiva dei rischi intercorsi nei giorni precedenti. Altra possibile conseguenza: la sospensione dell’hate speechonline nei giorni successivi al decreto, dopo il tentativo fallito di fomentare le accuse al governo da parte di forze politiche attive sui social media, anche attraverso l’uso massiccio di bot, o profili Twitter automatizzati che simulano persone reali (ricerca del Public Opinion and Media Lab in corso di pubblicazione).
Il nuovo contesto genera e sottrae carisma
Nella sfera politica, poi, abbiamo assistito a quello che gli studi sull’opinione pubblica chiamano effetto Rally around the flag (o “raduno intorno alla bandiera”): in situazioni di grave minaccia per il paese (come una guerra o un attacco terroristico) si genera un forte aumento della fiducia popolare nei presidenti. George W Bush tocco il 90% di popolarità dopo l’11 settembre 2001 e, non a caso, Donald Trump ha provato a definire la pandemia un attacco “peggiore di Pearl Harbour e delle Twin Towers” per mano della Cina. Nei sistemi parlamentari, anche i primi ministri tendono a beneficiare di questo effetto unificante.
Il contesto straordinario determinato dall’epidemia ha anche stravolto l’agenda mediale e sfaldato il terreno su cui facevano leva le linee di divisione politica precedenti. “Il carisma del mago” – scriveva Max Weber riguardo alla dimensione sociale e contestuale del carisma, spesso trascurata – “è immediatamente attivato da una siccità”. Un meccanismo che funziona anche al contrario: la scomparsa forzata del tema dell’immigrazione ha rapidamente disattivato il capitale carismatico accumulato da Matteo Salvini con il suo pluriennale sforzo di politicizzazione del tema, tanto che le dichiarazioni totalmente contraddittorie del leader della Lega sulla gestione della crisi non sono parse altro che il risultato della situazione di strutturale incongruenza rispetto al suo messaggio socialmente e politicamente polarizzante.
Sicurezza esistenziale ed economica: una scelta impossibile?
Sul piano più ampio delle ideologie e dei valori, il lockdown ha rimesso in competizione fra loro quelle che Ronald Inglehart indicava come le due principali preoccupazioni “materialiste”: la (hobbesiana) sicurezza esistenziale e la (marxiana) sicurezza economica. Quando i temi materialisti tornano al centro, arretrano non solo i valori postmaterialisti (una variante liberal-progressista/postindustriale di quelli che il Karl Marx de La quesitone ebraica definiva i “diritti borghesi”), ma anche le posizioni liberali classiche, che rumoreggiavano, tanto comprensibilmente quanto inutilmente, contro le restrizioni della libertà individuali.
La duplice domanda di sicurezza, sia esistenziale che economica, è risultata indissociabile. Per questo non c’è stata, ad oggi (maggio 2020), una risposta di sinistra e una risposta di destra all’epidemia e alla crisi. Quasi tutti i Paesi hanno finito per adottare politiche improntate sia a un forte ordine pubblico, sia a una forte spesa sociale. Se la prima parrebbe una risposta di destra e la seconda di sinistra, in realtà entrambe le politiche hanno storicamente caratterizzato tanto il conservatorismo non liberista quanto il socialismo non liberale, politiche che la crisi sembra aver riesumato e, al momento, sovrapposto.
Dunque il Coronavirus è giunto unicamente come una prodigiosa forza unitaria, un Communovirus che “ci mette su un piede di uguaglianza”, come ha affermato Jean-Luc Nancy?
La rivelazione delle diseguaglianze sociali
Se nel medio periodo è verosimile che la pandemia produca, come altri violenti shock esogeni hanno fatto nella storia recente, politiche economiche in una direzione provvisoriamente più “livellatrice” (Walter Schneidel), parrebbe evidente come finora sia stata rivelatrice di diseguaglianze sociali. Qui le variabili di quella che Bruno Latour chiama, con ingegneristica supponenza, “sociologia del sociale" potrebbero continuare a fare una grande differenza. In effetti si può tranquillamente ipotizzare che tutta l'esperienza del confinamento sia stata – a parità di condizioni di salute, psichiche e affettive preesistenti – radicalmente diversa a seconda della posizione individuale nello spazio sociale, e che la qualità del confinamento domiciliare sia fortemente associata a fattori come la disponibilità di patrimonio o la garanzia del reddito, la situazione abitativa, il genere, il capitale culturale (specie per sopperire alla mancata scolarità dei figli), e le competenze tecnologiche.
D’altra parte, è la triviale variabile “categoria professionale” (nella modalità “lavoratori low-status dei servizi essenziali”) ad aver stabilito il grado di esposizione al rischio di infezione e, purtroppo, i relativi tassi di mortalità. Lo stesso tragico effetto pare essere prodotto dall’intersezionalità tra professione, etnia, condizione socio-sanitaria e caratteristiche “macro” del quartiere nelle periferie delle metropoli, dal Bronx a Saint-Denis.
La questione del se, in che condizioni e per quali aspetti il Coronavirus abbia messo in luce le diseguaglianze più ancora di quanto non le abbia aumentate è materia di ricerca empirica. In entrambi i casi, si tratta però di un potente principio di divisione che si contrappone al momento della spinta unitaria. Ed entrambi, mi pare, contribuiscono in profondità a definire la dimensione sociale del Coronavirus.
Il paradosso della pandemia: sconfitta o rilancio della modernità?
Per situare in una prospettiva più ampia la posizione delle scienze sociali a fronte della pandemia, va ricordato un altro punto: le scienze sociali, in quanto approccio scientifico alla conoscenza del mondo, si inscrivono pienamente nella logica della modernità, di cui sono una delle espressioni più tipiche. Benché ne siano anche un’espressione critica e autoriflessiva – le scienze sociali spendono molte energie nella critica di varie implicazioni della modernità, della scienza e della tecnologia – sono, al pari della scienza, mosse dalla tensione moderna e illuminista per una conoscenza scevra da oscurantismi, pregiudizi, irrazionalismi, spiritualismi, distorsioni e falsità. La prima narrazione pubblica intorno alla pandemia decretava una sconfitta epocale della modernità, che nulla ha potuto contro un minuscolo virus di pipistrello. Ma quando le forze della modernità ripiegano, lo fanno anche le scienze e, volenti o nolenti, le scienze sociali. Queste ultime, peraltro, aggiungono alla tensione illuminista un imprinting tipicamente moderno: l’impulso socialmente progressista della metà del XIX secolo, dal quale nacque, fra l’altro, la sociologia.
Non è un caso se dalle scienze sociali e da altri ambiti della società civile sono cresciute, con il diffondersi della pandemia, le voci critiche a una certa idea di modernità, in particolare quella a più bassa sostenibilità sociale e ambientale. “Resettare il capitalismo” e “È tempo di deglobalizzazione” sono parole d’ordine che risuonano, se non altro tatticamente, perfino dal Financial Times. E certo una battuta d’arresto inedita, almeno nella tarda modernità, è la drastica decelerazione di cui hanno fatto esperienza i tanti Paesi che hanno optato per il confinamento, da cui hanno tratto però notevole beneficio le grandi piattaforme dell’economia digitale come Amazon, Alphabet e Facebook. Anche lo stato di incertezza certificato dalle istituzionali statali, con presidenti e primi ministri che riconoscono di non sapere e di non poter sapere, appare come un momento molto atipico nella condizione moderna.
La stessa identificazione delle cause del Cororavirus è, sotto questo aspetto, paradossale. La lotta, anche comunicativa, intorno all’attribuzione della responsabilità dell’origine del virus, tuttora in corso, individua due possibili colpevoli: da una parte un campione dell’anti-modernità come i “mercati umidi” animali dell’Asia profonda, i quali, legati alla medicina tradizionale cinese, contravvengono agli imperativi moderni della sorveglianza delle norme igienico-sanitarie e della distanziazione (ma anche dell’occultamento) del momento della macellazione. Dall’altra, un emblema ipermoderno come l’Istituto di virologia di Wuhan. Accanto a queste sfide serie alla logica della modernità, si è registrata anche una pulsione vagamente anti-moderna tra i neo-ruralisti metropolitani del lockdown: quando lo stato impone l’isolamento, in tanti sembrano tentati dal trasferirsi definitivamente in un borgo o in campagna (a condizione però di poter contare su un’eccellente connessione Internet).
Il ritorno del paradigma moderno
Eppure, la presunta sconfitta della modernità sarebbe molto bizzarra, date le circostanze. Ciò cui si è assistito in Occidente è, se mai, una richiesta di più razionalità organizzativa (come nella più efficace gestione tedesca della fase 1 dell'epidemia). Si ricerca più conoscenza e calcolabilità (strategia dei tamponi a tappeto e test sierologici a campione) e più prevedibilità nelle dinamiche di contagio (indice R0 al di sotto di una soglia critica). Si invoca più centralizzazione politica contro il “fai da te” delle Regioni in Italia, dei Länder tedeschi o dei singoli Stati negli Usa, dove è cresciuta ai massimi livelli storici la domanda di Big Government.
Si è imposta anche più sovranità stato-nazionale (gli Stati hanno implicitamente dichiarato lo stato di eccezione chiudendo i confini e sospendendo alcuni diritti civili elementari) e più ‘biopolitica’ statale (dove la politica diventa, come nella definizione di Michel Foucault, controllo della vita biologica della popolazione). Si fa affidamento a più tecnologia digitale (il tracciamento tramite app degli spostamenti di contaminati e immuni) e a più scienze biomediche (l’attesa spasmodica del vaccino anti-Covid anche, presumibilmente, fra i no-Vax). In una parola, nella lotta contro l’epidemia si è affermata oggettivamente una richiesta di più, non di meno modernità.
Accanto alla tensione tra principio di unità e di divisione, insomma, è possibile vedere riemergere con forza, indossando gli occhiali delle scienze sociali, la tensione sempre latente fra modernità e anti-modernità. Ma l’apparente fallimento del mondo moderno decretato dalla pandemia sembrerebbe spingere le società ad ancorarsi più saldamente al paradigma stesso della modernità piuttosto che a vagheggiarne un non meglio precisato superamento. E le scienze sociali appaiono come una parte rilevante di questo processo di resilienza della modernità, anche nella sua continua ridefinizione.